26 Aprile 2021
PER IL SETTIMO CENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE
“Pirandello e Dante”
L’Istituto di Studi pirandelliani commemora il settimo centenario della morte di Dante attraverso Luigi Pirandello, fra i più grandi lettori moderni della “Divina Commedia”.
I suoi studi e la sua opera d’artista recano infatti il segno di un’assidua quanto straordinaria frequentazione dantesca.
Annamaria Andreoli, presidente dell’Istituto, indaga il complesso rapporto fra Pirandello e Dante offrendolo in lettura per sette segmenti, in attesa che cessi la pandemia e che si possa riprendere la consueta attività seminariale.
I
Un secolo fa, cioè nel 1921, quando si commemorava solennemente il sesto centenario dalla morte di Dante, Luigi Pirandello non mancò di intervenire da artista. Da artista giunto da poco al successo ma, specie con il teatro, in modo prorompente, tale da travalicare i confini nazionali. Subito tradotto e rappresentato in Europa e in America, Sei personaggi in cerca d’autore, commedia che debutta giusto nel 1921, contengono vari omaggi danteschi che hanno molto da suggerire sui rapporti che lo scrittore da sempre intrattiene con la Divina commedia. E intanto, appunto nella definizione del personaggio come entità misteriosamente vitale egli si riferisce alla doppia esistenza di certi personaggi che Dante incontra durante il suo viaggio nell’aldilà. Qual è lo status animarum post mortem? Non uguale per tutti. Perché certi peccatori si macchiano di nefandezze così enormi che la loro anima si trova già all’inferno mentre il loro corpo continua tra i vivi un’esistenza solo apparente. Dunque una terza specie: coloro che restano vivi ma in realtà sono morti.
Qual è lo status del personaggio pirandelliano sul palcoscenico? L’arte l’ha creato in modo da renderlo vero ma irreale. Lo dice, e proprio in termini danteschi, il personaggio-alfa che guida il gruppo dei Sei: siamo «esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri!». C’è chi ne dubita, come Dante dubita quando, nel fondo dell’inferno, frate Alberigo gli addita ser Branca Doria:
elli è ser Branca Doria…
– Io credo – diss’io lui che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni…
(If XXXIII 137-141)
I Sei personaggi replicano innumerevoli pronunce dantesche, quasi impercettibili, tali però da farne creature di un altro mondo. Loro non «parlano» ma «mettono fuori la voce» (la Figliastra al Padre: «E su! Metta fuori la voce! Mi dica con voce nuova»…). Vale la pena di riascoltare Dante, che la sua voce deve averla alzata («affettuoso grido») se Paolo e Francesca, pur nel frastuono della bufera eterna, riescono a udirla:
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: – O anime affannate…
(If v 79-80)
II
In occasione del sesto centenario della morte di Dante, cento anni fa, Luigi Pirandello prendeva la parola in veste di professore per scrivere un articolo, La poesia di Dante, che pubblicava nell’ «Idea Nazionale» il 14 settembre 1921. L’articolo, composto durante il picco di creatività in questo torno di mesi, si intrecciava con un’esagerazione di capolavori, alcuni già licenziati altri da ultimare, tutti contemporaneamente sul suo tavolo di lavoro. Capolavori d’avanguardia e di rottura rispetto alle idee infuse di inizio Novecento.
Il settimo centenario dantesco si celebra, oggi, perdurando la pandemia che ha colpito il mondo intero. E noi ne soffriamo ignorando quando finirà e quali conseguenze comporterà. Non sono poche le coincidenze di questo con il centenario che l’ha preceduto. Basti ricordare che fra il 1918 e il 1920, l’epidemia cosiddetta «spagnola» (infezione influenzale delle vie respiratorie) aveva mietuto milioni di vittime. Un flagello per l’Europa già impoverita e stremata da cinque anni di guerra.
E poi, quando l’epidemia cessa, cosa accade? Cosa accadeva quando Pirandello andava discorrendo di Dante in un giornale nazionalista? Si pativano, allora, in Italia i troppi lutti mentre esplodeva un conflitto sociale senza precedenti. Vie e piazze perennemente invase da protestatari e scioperanti in rivolta; caduta del governo e elezioni politiche il 15 maggio 1921, anno dantesco ma anche anno in cui crollava la Banca italiana di sconto e si fondavano sia il Partito comunista che il Partito fascista. La violenza degli urti sociali stava preparando la dittatura: inni alla giovinezza smentiti da camicie nere con fregio di teschi, spedizioni punitive, fabbriche occupate, incendio dei raccolti.
Pirandello leggeva Dante come poeta della passione civile, della denuncia, dell’invettiva indignata e intensificava la sua attività di drammaturgo. Del resto, con i disastri della guerra alle spalle e per l’avvenire il miraggio della rivoluzione, nei teatri entrava un pubblico diverso dai soliti benpensanti in cerca di svago. La Storia allestiva tetri scenari, gli stessi che troviamo nelle commedie e tragedie che il nostro artista produceva a getto continuo. Dovevamo aspettarci, nel clima ad alta tensione del 1921, una tragedia ambientata del Medio Evo, dove un imperatore da carnevale dissacrava il potere: Enrico IV , ultimata in dicembre, era cominciata in settembre con l’articolo La poesia di Dante. In particolare, dal canto XXI del Paradiso Pirandello derivava il personaggio di Belcredi, modellato su Pier Damiani, il mistico ravennate che assegnava a Dio la signoria assoluta sul tempo: Dio può cancellare ciò che è accaduto. E gli avvenimenti del futuro? Dalla lontananza dei secoli Pirandello-Enrico IV osservava con pena i contemporanei: «gli uomini del mille novecento si abbaruffano, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione» (Atto II). Lo stesso vale per gli uomini del duemila.
III
Fra i capolavori del teatro moderno, Enrico IV è tragedia composta nel 1921, anno del sesto centenario dantesco. Ambientata nell’XI secolo, ecco la sola opera antiquaria di Pirandello. Che egli intenda fare udire la propria voce durante le solenni celebrazioni è un fatto tanto evidente quanto misconosciuto. Un’invalsa tradizione critica considera lo scrittore siciliano «non libresco», «originale», «eccentrico», «isolato». Fenomeno unico di talento individuale estraneo alla tradizione remota e meno remota, completamente risolto nella propria esemplare interiorità tormentata. Un creativo che mai saprebbe di lucerna e di scrivania, a fronte della letteratura coeva, fra Otto e Novecento densamente erudita, intenta al recupero del passato illustre. Non occorre insomma che si individuino «fonti» o che si avanzino confronti con altri autori. Per interpretare l’opera di Pirandello – serpente che si morde la coda – basta percorrerne motivi e intrecci ricorrenti. Si trascurano persino gli studi matti e disperatissimi che in gioventù ne minano la salute e che sempre lo accompagnano.
Così, dobbiamo all’argentino J. L. Borges (1899-1986), in Italia nei primi anni Venti e spettatore d’eccezione di Enrico IV, l’emergere di Dante nella tragedia di Pirandello. Il narratore dell’ Aleph dedicherà poi uno dei suoi fulminanti racconti, L’altra morte (La otra muerte), al problema dell’identità a cui dice di essere giunto attraverso il personaggio di Pier Damiani-Belcredi. Egli stesso avverte: «è una fantasia sul tempo, che ordii alla luce di due versi del canto XXI del Paradiso, i quali precisamente pongono un problema di identità… Nel quinto capitolo del suo trattato De Onnipotentia divina Pier Damiani sostiene, contro Aristotele e contro Fredegario di Tours, che Dio può far sì che non sia stato ciò che è stato». Quando Dante lo incontra nel cielo di Saturno, il mistico ravennate gli si presenta in effetti con un doppio nome, Pietro Damiano e Pietro Peccatore (vv.121-22), che lascia supporre una doppia identità se non una doppia vita, dove la seconda cancella la prima.
Anche l’incontro di Pirandello con Borges, autore di L’altro, io stesso (El otro, el mismo), avviene all’insegna del «doppio» e non va dimenticato che a unirli è oltretutto l’ altra «Palermo», il nome del quartiere di Buenos Aires in cui visse a lungo lo scrittore argentino, fra gli studiosi più creativi della Divina Commedia. I suoi Nove saggi danteschi rendono omaggio a quello che egli considera «il miglior libro scritto dagli uomini». Qui troviamo sorprendenti corto-circuiti: Ulisse e il capitano Ahab di Moby Dick (Dante e Melville) o Francesca e il Raskol’nikov di Delitto e castigo (Dante e Dostoevskij)… In questa logica combinatoria, la sola in grado di restituire vitalità alla tradizione, si collocano Pier Damiani e il Belcredi di Enrico IV.
Borges saluterà Pirandello, in tournée a Buenos Aires, siglando l’articolo Per la venuta di Pirandello (Para el advenimiento de Pirandello, in «Sintesis», luglio 1927)): «Il celebre scrittore italiano Luigi Pirandello è tra noi… è tra noi, espressione quasi magica. Tra noi. La preposizione è come il condensato dell’onnipresenza o della convivenza che si suppone possibile dopo aver avuto la notizia dello sbarco di Pirandello: si corre il bel rischio di averlo come vicino sul tram».
IV
Nella formazione culturale di Luigi Pirandello la presenza di Dante, così massiccia, dipende dall’enorme fortuna del nostro maggior poeta, allo zenit nel secondo Ottocento. Sull’Italia da poco unita domina nelle accademie e nelle università la gloriosa Scuola storica, impegnata a soddisfare al meglio i bisogni identitari della nazione recente. Lo studio del retaggio greco-latino nella civiltà medievale ci vede peraltro primeggiare nella vasta area romanza. Tanto più che fra i due secoli si diffonde da noi quella che Croce chiamava «dantolatria», quando la Divina commedia, sulla quale sventola il tricolore, si direbbe stampata sul suolo stesso della patria, e ogni accertamento di fonti, ogni restauro del poema sembra rappresentare una conquista che accresce il territorio nazionale.
Già ai Romantici va ascritta la «scoperta» di Dante, a lungo negletto; soprattutto, però, dell’ Inferno, aderente al gusto di quella scuola letteraria. Le forti passioni che lì si dibattono accomunano la cantica dei dannati al romanzo nero: marchio appunto romantico che s’imprime sul poeta al punto che ancora oggi un autorevole dizionario francese, il Robert (è solo un esempio fra i molti che si potrebbero avanzare), alla voce dantesque registra il primo significato di «ténébreux», aggiungendo poi «obscure», evidentemente ignorando il «dolce color d’oriental zaffiro» del primo canto del Purgatorio o il tripudio luminoso del Paradiso, dove splende – si ricorderà – un doppio sole.
Ma i Romantici «scoprono» anche il Dante comico, il sermo humilis del poema, come del resto «scoprono» Rabelais, Cervantes e Shakespeare, a cui va la predilezione di Hugo, di Carlyle, di Goethe, di Manzoni. Abbiamo appena menzionato – antichi e moderni – una serie di scrittori che il giovane Pirandello legge con passione. In tutti incontrava la poesia della Divina Commedia al punto che quella poesia ritroveremo nelle sue prime prove: quasi una seconda madrelingua. Persino nelle lettere che invia ai famigliari, autentici documenti letterari dell’artista in erba, il rinvio a Dante è frequentissimo. Talora esplicito, se, in vena di scherzi, lamenta di abitare, a Palermo, in via Bontà, una casa così tetra e malsana che varcarne la soglia gli ricorda «l’inizio del terzo canto dell’ Inferno» [«Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate»]. Talaltra implicito: e saranno le proverbiali «dolenti note» o l’altrettanto proverbiale «ben dell’intelletto». Meno scontato il sintagma «intelletti umani» (Pd XXVI 46) ripreso quando Pirandello scrive che la fantasia «inebria e vince ogni intelletto umano» (1° marzo 1889).
Di una vera e propria parodia dantesca, con la mescolanza di If X e XXXIII, si compongono alcuni versi rimati. Il ventenne Luigi li indirizza alla madre immaginando che le venga chiesto: «Chi fur li maggior tui?». A porle questa domanda è un cognato, il quale la vorrebbe madrina a un battesimo. Ecco la ragione della divertita genealogia di Caterina Ricci Gramitto:
Tu dei saper che furo a Mazzarino
I Bartoli, dal naso di sparvieri,
Parenti i Gallo, ond’io son tuo vicino.
Or per effetto dei miei ma’ pensieri
Fidandomi di te, donna, io ti prendo:
Che tu mi sii comare oggi è mestieri.
(20 marzo 1888)
V
Lo zio materno, il girgentino Rocco Ricci Gramitto (1834-1908), è un secondo padre per Luigi Pirandello che a Roma, studente universitario dal 1887, abita presso di lui, sorvegliato speciale perché il ventenne soffre di nevrosi: crisi d’ansia, insonnia, palpitazioni, umore atrabiliare… La casa dello zio, affacciata sul Tevere, in fondo alla centralissima via del Corso, la conosciamo, descritta com’è minutamente nel Fu Mattia Pascal (1904), romanzo del «morto due volte» e, più in generale, del «doppio»: Mattia risorge con il nome di Adriano e si innamora di Adriana, replica onomastica dedotta da Otto/Ottilia nelle Affinità elettive di Goethe.
Rocco ha militato al fianco di Garibaldi distinguendosi per l’acceso patriottismo non solo combattendo valorosamente in camicia rossa a Milazzo e in Calabria ma anche come poeta. Un suo libro di versi, Capitoli, troviamo infatti oggi nella superstite biblioteca di Caprera, dove il Generale l’ha conservata, dono della «guardia dittatoriale» (è il grado del combattente) molto gradito e ricambiato. Garibaldi gli aveva scritto il 28 gennaio 1863: «Caro Gramitto, | accetto riconoscente la dedica dei vostri bei versi e ve ne ringrazio, voi colla mente e col braccio avete dimostrato di qual santo affetto amate la patria. | Gradite una mia stretta di mano, e tenete lo stivale che raccoglieste in Aspromonte per memoria del vostro | G. Garibaldi». Lo stivale era quello insanguinato dalla pallottola che aveva ferito l’Eroe dei due mondi, prezioso cimelio chissà quante volte nelle mani di Luigi prima di comparire in mostra, a Torino, nell’Esposizione universale del 1884.
Nell’Italia unita lo zio prenderà la laurea in legge impiegandosi poi presso la Prefettura, quando Crispi è ministro dell’Interno, senza tuttavia tralasciare la poesia. E’ per ragioni patriottiche che scrive nel 1874, insieme con l’amico di sempre, Gabriele Dara (nativo di Piana dei Greci), una Francesca da Rimini per musica: prologo e due atti in versi.
In uscita presso la Stamperia di Salvatore Montes, in Girgenti (1878), nessun cenno al libretto da parte del nipote, tant’è vero che non viene mai menzionato da chi ne ha ricostruito le vicende famigliari. Vicende a tutt’oggi gravemente lacunose in quanto la documentazione che consentirebbe di ricostruirle resta presso gli eredi, gelosissimi e irremovibili depositari esclusivi di un tesoro forse destinato, purtroppo, a disperdersi.
Eppure il domestico melodramma dantesco testimonia la salda presenza di Dante come Padre della patria nell’apprendistato di Luigi. Significativa la Prefazione del libretto, con l’accenno alle «disillusioni della politica». Rocco e Gabriele l’hanno ideato a Roma, «in parte fra le rovine del Palazzo dei Cesari, e in parte sotto le arcate del Colosseo»: altre rovine, il cuore frantumato dell’Urbe. D’obbligo il rinvio alla Francesca di Silvio Pellico, loro due sperano di non meritare «pena più grave del tetro Spielberg». Meritano, casomai, il plauso, non fosse che per gli studi condotti al fine di ricostruire la corte ravennate distinguendola da quella riminese. Ma il libretto è ricco di ogni sorta di pregi.
Intanto non si commette l’errore di considerare Francesca «una Bovary di provincia»; errore dei giorni nostri, e recidivo, visto che la lettrice traviata dal Lancelot («Noi leggiavamo un giorno per diletto», If V 127) ha fatto di nuovo pessima comparsa nelle trasmissioni televisive del 25 marzo 2021, giorno commemorativo del settimo centenario della morte del Poeta. Ravenna una provincia? Ravenna rutilante d’oro di alabastri, con centinaia e centinaia di arche sacre fra i Signa Gloriae, Empireo dei mistici, era nel XIII secolo porto di primaria importanza («Siede la terra dove nata fui | sulla marina», 97-98), scalo commerciale di ricchissimi ciprioti, greci, siriani, egiziani, nestoriani… Di meglio un esule non avrebbe potuto desiderare e non per nulla Dante paragona il Paradiso terrestre («tal qual» Pg XXVIII 19) alla pineta di Classe.
Francesco Torraca, allievo di De Sanctis, ha condotto a suo tempo uno studio capillare sulla Ravenna di Dante e sui canti romagnoli della Divina Commedia fornendo informazioni decisive sul prodotto interno lordo di quei paraggi. «Chi spennava dodici anitre» precisa Torraca dopo aver consultato gran quantità di provvigioni «in compenso ne riteneva sei per sé». La bizzarra mezzadria segnala che la ricchezza era assai ben distribuita. Insieme con le competenze tecnologiche diffuse, nella ripartizione dei beni consiste il parametro attraverso cui uno storico autorevole qual è Braudel definisce una capitale. E Ravenna non manca di questo requisito nella Romagna «non… mai…| sanza guerra» (If XXVII 37-38) sulla quale si diffonde Guido Da Montefeltro, congiunta alla Romagna del nostalgico Guido Del Duca. Il Guido nativo di Bertinoro restituisce poi splendidamente la dolce vita ravennate quando ricorda «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi | che ne ’nvogliava amore e cortesia» (Pg XIV 104-110).
Nasce in questo invogliante clima pre-stilnovistico il «mal perverso» degli amanti che lo zio Rocco mette in scena. Di teatro si era occupato in gioventù dedicando un lungo studio all’Alfieri (Sul drama, 1858) dove discuteva le tesi di F. Schlegel. Antecedenti di tutto rispetto, che motivano la precoce vocazione teatrale di Luigi, figlio d’arte più di quanto non si creda.
VI
A dispetto di tanta produttività, Pirandello ha lasciato scarne testimonianze manoscritte del suo lavoro: abbozzi, prime stesure, autografi di opere sono rari. Un manipolo di appunti danteschi e una Divina Commedia, da lui annotata nei margini sino all’inverosimile, rappresentano pertanto reperti fortunosi che meritano attenzione. È probabile che il solerte annotatore dipenda dall’insegnante di stilistica, attività svolta da Pirandello per lunghi anni, fra il 1898 e il 1922. Lo stesso arco di tempo in cui rientra, parallelamente, la composizione della maggior parte dei suoi capolavori, i quali dunque costeggiano il dialogo con Dante. Dialogo ininterrotto: le carte superstiti non rappresentano che la punta dell’iceberg. Il più ci resta ignoto.
Non però così ignoto se, ad apertura di pagina, nei Vecchi e i giovani, Dante svetta nelle scene infernali del degrado collettivo e lo troveremo anche accanto al cinico Candide di Voltaire. Pirandello conclude il suo romanzo sociale, dove si contano non meno di centocinquanta personaggi (tutti hanno un nome e una precisa fisionomia), nel 1913. Anno al quale Leonardo Sciascia ha dedicato un volume, intitolandolo però 1912+1 per scaramanzia nei confronti del malefico tredici: lo stesso che faceva regolarmente d’Annunzio. Sciascia lo imita apertamente perché a suo avviso questo è l’anno non solo del suffragio universale voluto da Giolitti, l’anno del patto Gentiloni, l’anno dell’esultanza per il trionfo in Libia; questo è l’anno in cui il poeta esiliato in Francia raggiunge lo zenit della fama: «d’Annunzio era nell’aria – scrive Sciascia – come mai in Italia nessun altro scrittore».
Perciò i Vecchi e i giovani cadono nel disinteresse generale quando vedono la luce e non vengono neppure menzionati dal più acuto lettore di Pirandello, che invece giudicava il romanzo ambientato durante i Fasci siciliani il vertice della propria carriera di narratore. Parte della vicenda si svolge a Girgenti (come allora si chiamava Agrigento) e parte a Roma, la Roma insozzata dallo scandalo della Banca romana. L’immagine del «fango» soccorre il narratore: «dai cieli d’Italia… pioveva fango… e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori… Diluviava fango, e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo – neri uccellacci – il sospetto e la calunnia».
È qui che entra in gioco il laboratorio con gli appunti danteschi che sottolineano alcuni motivi ricorrenti nella Divina Commedia: alberi, uccelli, acque… Nel fango sono puniti gli iracondi, immersi nella palude dello Stige, «tristo ruscel» che discende alle «maligne piagge grige». Nella «quarta lacca» o «cerchio tetro», Dante incontra «genti fangose» confitte nel «pantano,| ignude tutte», che latrano come cani e come cani si mordono a vicenda («troncandosi co’ denti a brano a brano»). Da quelle «onde bige» alcuni non affiorano ma se ne vedono le bolle d’aria («fanno pullular quest’acqua al summo»). Pur sommersi nel «limo» emettono suoni che unicamente il magico Virgilio è in grado di decifrare. Il loro lamento – «ci attristiam nella belletta negra» – Dante non può percepirlo perché il «fango li ingozza» e «dir nol posson con parola intègra». «Gorgoglian nella strozza», in rima con «lorda pozza» (If VII 108-129), offre al poeta il modo per compensare con i suoi propri suoni quanto mai striduli e duri quelli che non percepisce.
Mirabile esibizione di bravura che non passa inosservata e fa il paio, nei Vecchi e i giovani, con i «frutti imbozzacchiti», raccolto bastardo – scrive Pirandello – dei politicanti della terza Roma, «meschini… coltivatori dell’arido giardinetto del loro senso morale». Dove riconosciamo i «bozzacchioni», cioè frutti vuoti e guasti, danteschi («la pioggia continua converte | in bozzacchioni le susine vere», Pd XXVII 125-126) insieme con il celebre motto di Voltaire: «il faut cultiver son jardin». Risonanze che percorrono il romanzo «a brano a brano».
VII
Piegandosi all’insegnamento, ufficio che credeva di poter evitare grazie alla dote della moglie, Pirandello ha dovuto svolgere controvoglia, dal 1898 al 1922, lezioni di stilistica, perdendo anche parecchio tempo nelle interminabili sedute d’esame. In più, egli ha dovuto convivere con i colleghi, nei confronti dei quali era d’obbligo ottundere le punte acuminate del suo carattere spigoloso. Diventava insomma necessario, se non proprio stringere amicizia, almeno dispensare a questo o a quello una certa dose di diplomatica affabilità. Missione quasi impossibile per Pirandello, così ispido e gaffeur che vien fatto di credere a una studiata strategia.
Del resto, a Luigi piaceva, in gioventù, il soprannome di «diavolo». Sembrava, allora, attratto dal leggendario Erostrato di Efeso, che aveva incendiato il tempio di Artemide con lo scopo di tramandare con questa clamorosa contro-gloria il suo nome sino alla fine dei tempi. Molto oltre il cattivo carattere, dire che certi colleghi del Regio Istituto di Magistero spazientivano Pirandello è poco. Cercava di starne alla larga, appropriandosi magari di qualcuno di loro per bistrattarlo nelle novelle. Lo sorprendiamo perciò beffato quando è lui di turno nella «stanza della tortura» dove sottoponeva a sevizie, in mancanza di meglio, i suoi personaggi.
Ma prima di vederlo fra contorcimenti, spasimi e sudori freddi, va ricordato che i professori di stilistica militano quasi al completo (militanza di prammatica a cavallo dei due secoli) nell’esercito dantesco, più o meno gallonati. Essere studiosi di Dante merita l’avanzamento di carriera. Essere poi studiosi di Dante, in carriera avanzata, e non comporre poesie denuncerebbe un’indifferenza colpevole: non vengono ammessi anticorpi al contagio. Valgano per tutti Carducci o Graf.
A tacere di altri dantisti nella stretta cerchia dei colleghi di Magistero, come per esempio Manfredi Porena, è sul siracusano Giuseppe Aurelio Costanzo (1843-1913) che si appunta l’attenzione, non fosse che perché dell’Istituto ricopre la carica di Direttore. È a Costanzo che Pirandello rivolge le numerose richieste di congedo, scontate da parte di chi mal sopporta l’insegnamento. Succede così che il nostro professore insofferente si trovi fra le mani, nel 1903, in piena stesura del Fu Mattia Pascal, fulminato dal disastro dell’azienda paterna; dunque nelle peggiori condizioni morali e materiali, Pirandello si trova fra le mani il mastodontico Dante. Poema lirico di Costanzo. Non è assolutamente possibile negargli il favore di una recensione, ora che il più giovane collega e conterraneo si pregia di collaborare alla «Nuova Antologia». Obbligatissimo.
Costanzo è poeta di lungo corso nonché studioso stimato da Francesco De Sanctis e si sa che ha avuto il privilegio di conversare con Alessandro Manzoni. I suoi baffi enormi, il piglio severo, i molti congedi s’impongono e Pirandello, curvo al pari di Sisifo, cioè condannato in partenza a non farcela, trascina quel macigno pesante di trecento sonetti (tanti i canti quanti i sonetti) per portarlo alla cima di qualche pagina di circostanza.
Quattromiladuecento settenari rimati in cui il Costanzo discute con Dante. A noi! divino Poeta. Perché le punizioni del Purgatorio risultano più gravi di quelle dell’Inferno? I dannati patiscono un’unica pena; i purganti, invece, più d’una, con l’aggravante di vedersi rinfacciare di continuo i loro peccati da esemplari campioni di virtù e morigeratezza, dipinti e scolpiti per aumentarne la contrizione umiliandoli. Non è giusto! Che presto o tardi le scosse telluriche della montagna magica li catapultino in Paradiso, questo è dettaglio trascurabile per il poeta in seconda che decide di compiere il viaggio di Dante alla rovescia. Contromossa originale, dal Paradiso all’Inferno. Il percorso a ritroso si compie pour cause: dal minimo al massimo, in nome della poesia, al diapason, secondo Costanzo, nel regno di Lucifero. La Divina Commedia bisognerebbe stamparla e studiarla – ovvio, no? – sottosopra.
Impossibile per Pirandello non recensire; impossibile per noi leggere la recensione («Nuova Antologia», 16 gennaio 1904) senza patire le sua stessa tortura. Quanto a comunicarcela non teme confronti lo scrittore magistrale nel notomizzare le sopportazioni al loro culmine esplosivo, un secondo, un solo secondo prima del famoso fischio del treno. Ogni dieci righe Pirandello scrive: «ripeto», «come ho già detto», «insisto». Sono le volte che Sisifo caracolla e torna da capo. Prosa tale da poter utilmente comparire in un prontuario di retorica con esempi da esecrare. Soffriamo con lui:
tu [Dante] mendicando
la vita a frusto a frusto,
esule, austero e ardito
ti apristi a quando a quando
la via dell’infinito…
Non sempre, «a quando a quando». È ancora lontano il tempo della sprezzatura ironica in grande stile. Parole di Pirandello, dopo che il treno ha fischiato: «della poesia di Dante» suvvia «ci possiamo contentare».